Sesso imposto alla moglie grazie all’intimidazione psicologica: marito condannato per violenza sessuale
Attendibili i racconti fatti dalla donna. I giudici ribadiscono: non esiste all’interno del rapporto coniugale un diritto all’amplesso, né conseguentemente il potere di imporre od esigere una prestazione sessuale senza il consenso del partner

Catalogabili come violenza sessuale le congiunzioni carnali imposte grazie alla intimidazione psicologica dall’uomo alla moglie. Questa la presa di posizione dei giudici (sentenza numero 45417 dell’11 dicembre 2024 della Cassazione), chiamati a prendere in esame l’ennesima vicenda riguardante una donna vessata tra le mura domestiche dal marito. Ad inchiodare l’uomo, nel caso specifico, è l’attendibilità attribuita alla moglie, con conseguente veridicità dei fatti da lei raccontati. Respinte le obiezioni difensive, mirate, tra l’altro, sostenere la tesi della possibilità di un fraintendimento, da parte dell’uomo, sul consenso della donna, dovendosi egli basare, secondo la difesa, solo sull’intimo sentire della consorte, piuttosto che su una manifestazione chiara ed univoca. Per meglio inquadrare la vicenda, però, i magistrati richiamano il principio secondo cui, in tema di violenza sessuale, il mancato dissenso ai rapporti sessuali con il proprio coniuge, in costanza di convivenza, non ha valore scriminante quando sia provato che la parte offesa abbia subito tali rapporti per le violenze e le minacce ripetutamente poste in essere nei suoi confronti, con conseguente compressione della sua capacità di reazione per timore di conseguenze ancor più pregiudizievoli, dovendo, in tal caso, essere ritenuta sussistente la piena consapevolezza, nell’autore delle violenze, del rifiuto, seppur implicito, del partner ai congiungimenti carnali. Per maggiore chiarezza, poi, i magistrati aggiungono che integra il reato di violenza sessuale, nella forma cosiddetta ‘per costrizione’, qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idoneo ad incidere sull’altrui libertà di autodeterminazione, ivi compresa l’intimidazione psicologica che, come nella vicenda in esame, sia in grado di provocare la coazione della vittima a subire atti sessuali, a nulla rilevando l’esistenza di un rapporto coniugale o paraconiugale, atteso che non esiste all’interno di detto rapporto un diritto all’amplesso, né conseguentemente il potere di imporre od esigere una prestazione sessuale senza il consenso del partner. Per quanto concerne poi il concetto di intimidazione psicologica, esso rimanda necessariamente al peculiare contesto spazio-temporale in cui si svolge l’azione, assumendo rilievo le contingenze specifiche che, oltre a comprimere la capacità di reazione del soggetto passivo, ne limitino in concreto l’espressione di volontà: non vale ai fini del perfezionamento del delitto neppure l’espressione manifesta del consenso della vittima, allorquando la sua volontà sia coartata dal timore delle conseguenze ben più pregiudizievoli che ai suoi occhi scaturirebbero dal rifiuto esplicito all’atto sessuale impostole quale forma di violenza indiretta. Ricostruendo la vicenda oggetto del processo, in sostanza, è emerso un quadro di vessazioni compiute dall’uomo ai danni della moglie e consistite anche nella pretesa di avere rapporti sessuali da lei non graditi. Più nello specifico, ci sono stati episodi, reiterati nel tempo, in cui, per quieto vivere, la donna sottostava passivamente alle richieste del marito, ed episodi in cui l’uomo aveva tenuto comportamenti effettivamente violenti, con l’uso della forza fisica per afferrare la consorte da tergo, e bloccarla, e trattenerla, impedendole in pratica di reagire. Inequivocabili le parole della donna, la quale ha spiegato di non aver potuto reagire per il timore di far sentire tutto ai miei figli.